Avvenire, 17 febbraio 2010
intervista a ENZO BIANCHI
di LORENZO FAZZINI
Una fede detta in modo più «antropologico», un ateismo non dogmatico ma aperto alla ricerca. Per Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose e apprezzato biblista, sono questi due i poli di un’auspicata stagione di confronto tra laici e credenti.
Cos’era e cosa dice oggi la figura del “cortile dei gentili?”
L’atrio per i gentili, i goim, era la parte più esterna del Tempio di Gerusalemme, suddiviso in tre zone precise: una per il popolo di Israele, una per i sacerdoti, e poi il cuore del tempio, il Santo dei santi in cui vi era la presenza di Dio. Attorno a queste tre aree vi era uno spazio con un colonnato delimitato da un muro. Qui potevano entrare i gentili, ovvero i pagani, come attestato da un’iscrizione rinvenuta su questa parete, una delle scoperte più preziose dell’archeologia biblica. È proprio di quel muro che Paolo parla nella sua lettera agli Efesini quando scrive di un “muro di divisione” tra il popolo eletto e le genti. Il cortile era una zona di silenzio dove si trovavano alcuni rabbini disponibili a parlare su Dio e dire qualche parola sulla Torah, la Legge, spiegando la specificità di Israele a quanti volevano saperne di più. È proprio questo il posto che Gesù ha trovato come un luogo di mercato, invaso dai cambiavalute che fornivano agli ebrei le monete adatte a versare il tributo al Tempio. Gesù allora rese di nuovo libero questo spazio e, come riporta il vangelo, riprese le parole di Dio nell’Antico Testamento: “la mia casa è casa di preghiera per tutte le genti”. Così dimostrava quanto egli fosse preoccupato che chi non aveva Dio potesse accedere a Lui e in qualche modo trovare una risposta alla propria ricerca. Per questo giustamente Benedetto XVI auspica che tra cristianesimo e gli atei, o i diversamente credenti, vi sia una possibilità di dialogo. L’atrio dei gentili è una cifra in cui è possibile ravvisare un possibile confronto in cui ci si ascolti a vicenda e dove chi non è cristiano possa dar corso al proprio indagare.
Oggi c’è questo spazio di dialogo?
Abbiamo avuto negli ultimi decenni alcuni esempi, come la Cattedra dei non credenti del cardinale Martini a Milano. Anche qui a Bose si fa in modo che non cristiani e atei possano essere ascoltati e confrontarsi sulla fede e il senso della vita con chi crede. Penso che ogni chiesa locale dovrebbe trovare nella varietà delle forme una possibilità simile. Molte iniziative vengono fatte da non cristiani che invitano i credenti. Mi sembra che noi cattolici non siamo più audaci e irrequieti nel cercare il dialogo. Spesso si vede tutto questo ai festival di diverse discipline nelle varie città, dove nel bene e nel male i più ascoltati sono i conferenzieri cristiani e cattolici chiamati a intervenire su determinati temi. Da parte nostra, da parte dei credenti intendo, si vede una certa timidezza e pigrizia.
Diversi interlocutori cattolici hanno rilevato come sia necessario una purificazione della fede. Cosa significa questo a livello culturale?
Credo che dobbiamo tener conto di quanto Benedetto XVI afferma, ovvero l’esigenza di purificare la ragione. Dobbiamo avere la pazienza e l’audacia di mettere la fede al vaglio della ragione e saper rispondere a chi chiede le ragioni del nostro credere. Non in nome di un razionalismo stretto ma per il fatto che il logos, riflesso del Logos divino, accomuna gli esseri umani. Questo è il primo sforzo da fare, ma anche quello che ci crea difficoltà: dobbiamo parlare un linguaggio antropologico, non teologico e dogmatico, per far capire a tutti che quello cristiano è un cammino di umanizzazione. Per far comprendere che tra fede e antropologia non c’è antagonismo, bensì che il cristianesimo è a servizio dell’essere umano. Noi credenti dobbiamo farci capire con un linguaggio antropologico capace di evidenziare il servizio reso all’uomo.
Molti laici sottolineano la loro distanza dai laicisti o “nuovi atei”. Ma questi ultimi hanno notevole risonanza mediatica. Che fare allora?
Credo che non ci si debba spaventare del loro successo, che rappresenta il fatto di un momento. Al di là del loro vezzo anticristiano, essi non hanno argomenti che possono durare. Credo che ci siano tanti non cristiani che desiderano un vero dialogo con i credenti. Queste persone sono disposte a fare un dialogo intorno a Gesù, una figura che per loro resta intrigante. L’umanità di Cristo li tocca. Quei laici che anche da Dio si tengono lontano e Lo sentono una parola pericolosa, quando si parla di Cristo dimostrano interesse. Mi riferisco al vangelo di Giovanni quando vennero i gentili che dissero agli apostoli: vogliamo vedere Gesù. Io prenderei sul serio questo interesse dei laici, Gesù li intriga, non è ostacolo per loro: forse lo è la Chiesa, forse anche Dio. Noi dobbiamo tenerne conto e valorizzare il dato che il nostro Dio ci è stato rivelato dall’uomo Gesù, figlio di Dio.: .
C’è però molta ignoranza, anche mediaticamente diffusa, sulla figura di Cristo …
Sono cosciente che ci sono bestseller in cui tutta la figura di Gesù è svuotata storicamente. Dobbiamo opporre a queste teorie, che sono accattivanti, la possibilità di un’umanità di Gesù che risulti intrigante. Su questo mi sembra che manchiamo noi. Ci sono avventurieri che riescono a dire qualcosa di pruriginoso su Gesù e a svenderlo per ricavarne qualche vantaggio.
Lei ha messo spesso in guardia il mondo cattolico dalla tentazione del clericalismo. E chiede maggior profezia alla Chiesa nella società. E cosa vorrebbe chiedere ai non credenti?
Che la loro condizione di ateismo non sia un dato assoluto ma una condizione di ricerca. Se tra i cristiani il teismo è un atteggiamento religioso sbagliato, per gli atei altrettanto sarebbe il dogma di affermare che Dio non esiste. Chiederei loro di restare in una laica ricerca di apertura. E aggiungerei: sconfiggiamo insieme il dogmatismo. Altrimenti ne nasce un dualismo che ha la sua ragione d’essere nell’offrire solo le proprie posizioni, senza che ci sia un confronto vero. Su questo la situazione in Italia è diversificata: vi sono alcuni laici che, inseriti in questo atteggiamento di ricerca, non vogliono stare immobili in dogmatismi sul non credere e si mettono in cammino. C’è poi un’altra parte in cui l’anticlericalismo è tale che scivola in un ateismo degradato e che rifiuta tutto quello che concerne la fede. Questi dimenticano che la fede è anzitutto un atto umano. Il primo passo del credere è davvero umano, e per questo dovremmo considerarlo come un atto che veramente ci unisce. L’amore tra un uomo e una donna, l’amicizia, la stessa politica come possibilità di costruire la polis, sono tutti atti di fede, di fiducia nel fatto che esiste e può esistere un legame, una storia, una politica. L’atto di fede non esclude che si creda nell’uomo.
Alcuni interlocutori in questi colloqui segnalavano – in particolare la teologa Cettina Militello - l’indifferenza religiosa ormai dilagante. Cosa fare di fronte a questa situazione di post-ateismo?
È vero, c’è una grande anestetizzazione nella società perché viviamo nell’individualismo sfrenato e nella dittatura delle emozioni per cui l’uomo è impegnato solo in quel divertissement di cui parlava Pascal. Al di là di tutto penso, però, che gli esseri umani siano in ricerca dell’amore, e l’amore vero. E Gesù ci ha narrato che Dio è amore. Bisogna allora trovare il modo per annunciare che Gesù non è una figura mitica come tante o il fondatore di una religione tra le altre, bensì colui che ha svelato l’uomo all’uomo: potremmo dire l’uomo per eccellenza. La sua vita è stata un’opera d’arte. Se presentato così, anche agli indifferenti Gesù non resta indifferente.
intervista a ENZO BIANCHI
di LORENZO FAZZINI
martedì 30 marzo 2010
venerdì 19 marzo 2010

San Giuseppe
Sposo della Beata Vergine Maria
19 marzo
Sposo della Beata Vergine Maria
19 marzo
Questa celebrazione ha profonde radici bibliche; Giuseppe è l'ultimo patriarca che riceve le comunicazioni del Signore attraverso l'umile via dei sogni. Come l'antico Giuseppe, è l'uomo giusto e fedele (Mt 1,19) che Dio ha posto a custode della sua casa. Egli collega Gesù, re messianico, alla discendenza di Davide. Sposo di Maria e padre putativo, guida la Sacra Famiglia nella fuga e nel ritorno dall'Egitto, rifacendo il cammino dell'Esodo. Pio IX lo ha dichiarato patrono della Chiesa universale e Giovanni XXIII ha inserito il suo nome nel Canone romano. (Mess. Rom.)
Patronato: Padri, Carpentieri, Lavoratori, Moribondi, Economi, Procuratori Legali
Etimologia: Giuseppe = aggiunto (in famiglia), dall'ebraico
Emblema: Giglio
Martirologio Romano: Solennità di san Giuseppe, sposo della beata Vergine Maria: uomo giusto, nato dalla stirpe di Davide, fece da padre al Figlio di Dio Gesù Cristo, che volle essere chiamato figlio di Giuseppe ed essergli sottomesso come un figlio al padre. La Chiesa con speciale onore lo venera come patrono, posto dal Signore a custodia della sua famiglia.
Sotto la sua protezione si sono posti Ordini e Congregazioni religiose, associazioni e pie unioni, sacerdoti e laici, dotti e ignoranti. Forse non tutti sanno che Papa Giovanni XXIII, di recente fatto Beato, nel salire al soglio pontificio aveva accarezzato l’idea di farsi chiamare Giuseppe, tanta era la devozione che lo legava al santo falegname di Nazareth. Nessun pontefice aveva mai scelto questo nome, che in verità non appartiene alla tradizione della Chiesa, ma il “papa buono” si sarebbe fatto chiamare volentieri Giuseppe I, se fosse stato possibile, proprio in virtù della profonda venerazione che nutriva per questo grande Santo. Grande, eppure ancor oggi piuttosto sconosciuto. Il nascondimento, nel corso della sua intera vita come dopo la sua morte, sembra quasi essere la “cifra”, il segno distintivo di san Giuseppe. Come giustamente ha osservato Vittorio Messori, “lo starsene celato ed emergere solo pian piano con il tempo sembra far parte dello straordinario ruolo che gli è stato attribuito nella storia della salvezza”. Il Nuovo Testamento non attribuisce a san Giuseppe neppure una parola. Quando comincia la vita pubblica di Gesù, egli è probabilmente già scomparso (alle nozze di Cana, infatti, non è menzionato), ma noi non sappiamo né dove nè quando sia morto; non conosciamo la sua tomba, mentre ci è nota quella di Abramo che è più vecchia di secoli. Il Vangelo gli conferisce l’appellativo di Giusto. Nel linguaggio biblico è detto “giusto” chi ama lo spirito e la lettera della Legge, come espressione della volontà di Dio. Giuseppe discende dalla casa di David, di lui sappiamo che era un artigiano che lavorava il legno. Non era affatto vecchio, come la tradizione agiografica e certa iconografia ce lo presentano, secondo il cliché del “buon vecchio Giuseppe” che prese in sposa la Vergine di Nazareth per fare da padre putativo al Figlio di Dio. Al contrario, egli era un uomo nel fiore degli anni, dal cuore generoso e ricco di fede, indubbiamente innamorato di Maria. Con lei si fidanzò secondo gli usi e i costumi del suo tempo. Il fidanzamento per gli ebrei equivaleva al matrimonio, durava un anno e non dava luogo a coabitazione né a vita coniugale tra i due; alla fine si teneva la festa durante la quale s’introduceva la fidanzata in casa del fidanzato ed iniziava così la vita coniugale. Se nel frattempo veniva concepito un figlio, lo sposo copriva del suo nome il neonato; se la sposa era ritenuta colpevole di infedeltà poteva essere denunciata al tribunale locale. La procedura da rispettare era a dir poco infamante: la morte all’adultera era comminata mediante la lapidazione. Ora appunto nel Vangelo di Matteo leggiamo che “Maria, essendo promessa sposa a Giuseppe, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo, prima di essere venuti ad abitare insieme. Giuseppe, suo sposo, che era un uomo giusto e non voleva esporla all’infamia, pensò di rimandarla in segreto”(Mt 18-19). Mentre era ancora incerto sul da farsi, ecco l’Angelo del Signore a rassicurarlo: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù; egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,20-21). Giuseppe può accettare o no il progetto di Dio. In ogni vocazione che si rispetti, al mistero della chiamata fa sempre da contrappunto l’esercizio della libertà, giacché il Signore non violenta mai l’intimità delle sue creature né mai interferisce sul loro libero arbitrio. Giuseppe allora può accettare o no. Per amore di Maria accetta, nelle Scritture leggiamo che “fece come l’Angelo del Signore gli aveva ordinato, e prese sua moglie con sé”(Mt 1, 24). Egli ubbidì prontamente all’Angelo e in questo modo disse il suo sì all’opera della Redenzione. Perciò quando noi guardiamo al sì di Maria dobbiamo anche pensare al sì di Giuseppe al progetto di Dio. Forzando ogni prudenza terrena, e andando al di là delle convenzioni sociali e dei costumi del suo tempo, egli seppe far vincere l’amore, mostrandosi accogliente verso il mistero dell’Incarnazione del Verbo. Nella schiera dei suoi fedeli il primo in ordine di tempo oltre che di grandezza è lui: san Giuseppe è senz’ombra di dubbio il primo devoto di Maria. Una volta conosciuta la sua missione, si consacrò a lei con tutte le sue forze. Fu sposo, custode, discepolo, guida e sostegno: tutto di Maria. (…) Quello di Maria e Giuseppe fu un vero matrimonio? E’ la domanda che affiora più frequentemente sulle labbra sia di dotti che di semplici fedeli. Sappiamo che la loro fu una convivenza matrimoniale vissuta nella verginità (cfr. Mt 1, 18-25), ossia un matrimonio verginale, ma un matrimonio comunque vissuto nella comunione più piena e più vera: “una comunione di vita al di là dell’eros, una sponsalità implicante un amore profondo ma non orientato al sesso e alla generazione” (S. De Fiores). Se Maria vive di fede, Giuseppe non le è da meno. Se Maria è modello di umiltà, in questa umiltà si specchia anche quella del suo sposo. Maria amava il silenzio, Giuseppe anche: tra loro due esisteva, né poteva essere diversamente, una comunione sponsale che era vera comunione dei cuori, cementata da profonde affinità spirituali. “La coppia di Maria e Giuseppe costituisce il vertice – ha detto Giovanni Paolo II –, dal quale la santità si espande su tutta la terra” (Redemptoris Custos, n. 7). La coniugalità di Maria e Giuseppe, in cui è adombrata la prima “chiesa domestica” della storia, anticipa per così dire la condizione finale del Regno (cfr. Lc 20, 34-36 ; Mt 22, 30), divenendo in questo modo, già sulla terra, prefigurazione del Paradiso, dove Dio sarà tutto in tutti, e dove solo l’eterno esisterà, solo la dimensione verticale dell’esistenza, mentre l’umano sarà trasfigurato e assorbito nel divino. “Qualunque grazia si domanda a S. Giuseppe verrà certamente concessa, chi vuol credere faccia la prova affinché si persuada”, sosteneva S. Teresa d’Avila. “Io presi per mio avvocato e patrono il glorioso s. Giuseppe e mi raccomandai a lui con fervore. Questo mio padre e protettore mi aiutò nelle necessità in cui mi trovavo e in molte altre più gravi, in cui era in gioco il mio onore e la salute dell’anima. Ho visto che il suo aiuto fu sempre più grande di quello che avrei potuto sperare...”( cfr. cap. VI dell’Autobiografia). Difficile dubitarne, se pensiamo che fra tutti i santi l’umile falegname di Nazareth è quello più vicino a Gesù e Maria: lo fu sulla terra, a maggior ragione lo è in cielo. Perché di Gesù è stato il padre, sia pure adottivo, di Maria è stato lo sposo. Sono davvero senza numero le grazie che si ottengono da Dio, ricorrendo a san Giuseppe. Patrono universale della Chiesa per volere di Papa Pio IX, è conosciuto anche come patrono dei lavoratori nonché dei moribondi e delle anime purganti, ma il suo patrocinio si estende a tutte le necessità, sovviene a tutte le richieste. Giovanni Paolo II ha confessato di pregarlo ogni giorno. Additandolo alla devozione del popolo cristiano, in suo onore nel 1989 scrisse l’Esortazione apostolica Redemptoris Custos, aggiungendo il proprio nome a una lunga lista di devoti suoi predecessori: il beato Pio IX, S. Pio X, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI.
Autore: Maria Di Lorenzo
giovedì 18 marzo 2010
70 años de la llegada de los Scalabrinianos a la Argentina
Padres scalabrinianos
Durante este mes de marzo los Misioneros Scalabrinianos celebran los 70 años de su llegada a la Argentina. La primera expedición, enviada por el mismo Fundador, el beato Juan Bautista Scalabrini, se remonta al año 1890 pero fue de corta duración. La segunda se gestó por el año 1939, en plena II guerra mundial.
Como desde Italia no podían salir misioneros, el Superior General de la Congregación de los Misioneros de San Carlos (Scalabrinianos) y el cardenal Raffaello C. Rossi, de la Congregación vaticana para los Obispos, decidieron recurrir a los Scalabrinianos residentes en el Brasil para realizar la apertura de la misión en la Argentina.
Los encomendados fueron los padres Orestes Tondelli y Lino Ceccato, y el hermano Eugenio Fagher, que partieron a la Argentina en 1940.
El hermano Fagher, en 1990, escribía para un diario: “El padre Orestes Tondelli y yo zarpamos del puerto de Santos el 2 de marzo de 1940 en la motonave “Conte Grande” y llegamos el 5 a Buenos Aires. Tomamos un tren a La Plata, donde el arzobispo, monseñor Juan Chimento, preavisado por una carta del Superior Provincial llegada desde Brasil, nos recibió amablemente aunque dijo que esperaba tres sacerdotes, mientras ahí se encontró solamente ¡con uno y medio! (…) Llegamos a Pergamino el 8 de marzo y continuamos nuestro viaje en un “mateo” hacia la parroquia San Roque, en una pobre zona periférica del barrio Acevedo. A su alrededor vivían inmigrantes del sur de Italia y también del Líbano. (…) Nosotros tomamos oficialmente posición el 15 de marzo, y después de dos meses llegó el padre Lino Ceccato…”.
Hasta fin de 1946, Pergamino fue la única base scalabriniana en la Argentina. Desde allí se comenzó a gestar un proyecto pastoral que poco a poco cubrió los puntos más estratégicos para la adecuada atención en un principio de la inmigración italiana y paulatinamente a todas las otras migraciones. Desde la Argentina comenzó también la irradiación apostólica hacia Uruguay, Chile y Bolivia.
Actualmente la Congregación de los Misioneros de San Carlos (ese es su nombre oficial), fiel a su carisma para el servicio a los migrantes, cuenta en la Argentina con 21 sacerdotes de diferentes nacionalidades, destinados a las siguientes misiones: Buenos Aires (barrio de La Boca); Gregorio de Laferrere, González Catán, Merlo y Bahía Blanca (en la provincia de Buenos Aires); Rosario (Santa Fe), Córdoba, Mendoza y Jujuy, lugares todos donde los misioneros scalabrinianos realizan su trabajo en Delegaciones Diocesanas y Arquidicesanas de Migraciones, Comisión Católica Argentina de Migraciones, Centro de Estudios Migratorios, Apostolado del Mar, parroquias y colegios.+
Durante este mes de marzo los Misioneros Scalabrinianos celebran los 70 años de su llegada a la Argentina. La primera expedición, enviada por el mismo Fundador, el beato Juan Bautista Scalabrini, se remonta al año 1890 pero fue de corta duración. La segunda se gestó por el año 1939, en plena II guerra mundial.
Como desde Italia no podían salir misioneros, el Superior General de la Congregación de los Misioneros de San Carlos (Scalabrinianos) y el cardenal Raffaello C. Rossi, de la Congregación vaticana para los Obispos, decidieron recurrir a los Scalabrinianos residentes en el Brasil para realizar la apertura de la misión en la Argentina.
Los encomendados fueron los padres Orestes Tondelli y Lino Ceccato, y el hermano Eugenio Fagher, que partieron a la Argentina en 1940.
El hermano Fagher, en 1990, escribía para un diario: “El padre Orestes Tondelli y yo zarpamos del puerto de Santos el 2 de marzo de 1940 en la motonave “Conte Grande” y llegamos el 5 a Buenos Aires. Tomamos un tren a La Plata, donde el arzobispo, monseñor Juan Chimento, preavisado por una carta del Superior Provincial llegada desde Brasil, nos recibió amablemente aunque dijo que esperaba tres sacerdotes, mientras ahí se encontró solamente ¡con uno y medio! (…) Llegamos a Pergamino el 8 de marzo y continuamos nuestro viaje en un “mateo” hacia la parroquia San Roque, en una pobre zona periférica del barrio Acevedo. A su alrededor vivían inmigrantes del sur de Italia y también del Líbano. (…) Nosotros tomamos oficialmente posición el 15 de marzo, y después de dos meses llegó el padre Lino Ceccato…”.
Hasta fin de 1946, Pergamino fue la única base scalabriniana en la Argentina. Desde allí se comenzó a gestar un proyecto pastoral que poco a poco cubrió los puntos más estratégicos para la adecuada atención en un principio de la inmigración italiana y paulatinamente a todas las otras migraciones. Desde la Argentina comenzó también la irradiación apostólica hacia Uruguay, Chile y Bolivia.
Actualmente la Congregación de los Misioneros de San Carlos (ese es su nombre oficial), fiel a su carisma para el servicio a los migrantes, cuenta en la Argentina con 21 sacerdotes de diferentes nacionalidades, destinados a las siguientes misiones: Buenos Aires (barrio de La Boca); Gregorio de Laferrere, González Catán, Merlo y Bahía Blanca (en la provincia de Buenos Aires); Rosario (Santa Fe), Córdoba, Mendoza y Jujuy, lugares todos donde los misioneros scalabrinianos realizan su trabajo en Delegaciones Diocesanas y Arquidicesanas de Migraciones, Comisión Católica Argentina de Migraciones, Centro de Estudios Migratorios, Apostolado del Mar, parroquias y colegios.+
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