Ospitati e ospitanti
Tutti stranieri
Tornano ogni giorno alla ribalta, suscitando reazioni, interventi legislativi e sentimenti opposti.
Ma, chi è lo straniero? La sua identità ci è avulsa, ci sfiora o ci identifica?
Lo straniero, il diverso, sta diventando causa di scontro tra le istanze umanitarie e umaniste di ispirazione cristiana e
le istanze pragmatiche, dettate prevalentemente da paure e insicurezze sociali del mondo laico e del potere politico.
Per evidenziare quanto certe prese di posizione siano in contrasto con l’essenza del cristianesimo, è opportuno spolverare il significato teologico biblico dello straniero, non tanto per farne una esegesi quanto per confrontarlo con le problematiche attuali.
Si scoprirà che una delle figure bibliche più citate, più popolari è quella dello straniero. Con questa categoria la Bibbia istituisce un nuovo modo di pensare, una nuova conoscenza che mai come oggi è così necessaria per superare la crisi in atto.
Il primo personaggio definito come straniero nella Bibbia è Abramo, perché egli è colui che non ha una terra, e non l’avrà mai. Un personaggio molto simile ad Ulisse – figura significativa dell’epica greca – ma da cui si distingue in maniera quasi lapidaria. Ulisse è colui che parte per un lungo viaggio, che durerà quasi un’intera vita, per poi tornare allo stesso punto di partenza: la sua isola, la sua terra.
Ha quindi un ritorno al suo radicamento. Abramo, invece, parte e si dirige verso una terra che non sarà mai sua e che avrà sempre e solo lo statuto di terra data, nel senso di donata.
Straniero è colui che non può dire “questa lingua è mia, questa terra è mia, questa casa è mia”.
È colui che non ha un luogo in cui risiedere definitivamente.
Abramo si definisce ed è definito dalla Bibbia come straniero, ma nello stesso tempo come inquilino.
Lo straniero non ha terra e quindi rimane residente nella fattispecie di ospite. Abramo diviene quindi il simbolo/contraddizione dello straniero ospitato e ospitante.
Se punto fondamentale della Bibbia rimane la Torah e il fulcro della Torah è lo straniero, la norma fondante, il cuore dell’intera Bibbia sarebbe dunque lo straniero. Lo straniero – udite, udite – è parte essenziale del racconto di fondazione, ed in questo consiste l’unicità della Bibbia.
Ma c’è ancora un altro aspetto che contraddistingue il racconto biblico che non raccomanda solo l’ospitalità dello straniero – raccomandazione comune ad altre religioni – ma lo colloca al centro del suo racconto.
Israele nella Bibbia ha una funzione rappresentativa, non esclusiva, ciò vuol dire che “l’Israele straniero” rappresenta
a buon conto tutta la condizione umana. Insomma, il tanto vituperato straniero, nella Bibbia è quella parte dell’umanità che rappresenta l’umanità intera. Lo straniero è simbolo dell’alterità, è metafora dell’alterità dell’altro in quanto altro, ma è anche paradigma dell’umano ospitale.
Nel suo racconto di fondazione, Israele non ha di sè l’immagine di eroe ma di straniero.
Non è l’eroe pieno di forza e di potenza al modo del racconto di fondazione di Roma con Romolo e Remo, ma è lo schiavo, l’oppresso. La Bibbia non fa della forza o potenza il principio dell’umano. È proprio il paradigma della forza che va messa in discussione se si vuole salvare l’umanità e il mondo. Forse la politica se ne sta accorgendo.
Questo è importante. Lo straniero che è stato liberato deve a sua volta farsi liberatore amando lo straniero. Generalmente chi ha patito, chi è stato oggetto di violenza rischia di diventare egli stesso soggetto di violenza.
Ma anche in questo la Bibbia ci aiuta a non cadere in errore ed è qui, nella fantastica “biblioteca” della Bibbia, che possiamo attingere un ulteriore profondità: imitare o riprodurre il gesto fondatore di Dio, liberando gli stranieri come Lui, asciugando le lacrime come Lui e amando gratuitamente come Lui.
Nel Pentateuco il comandamento di amare lo straniero ricorre più di 30 volte.
Qui si entra nel cuore della Bibbia per la quale etica e diritto sono inscindibili e per la quale il diritto è mediazione
della giustizia. Un diritto che non fosse mediazione dell’attenzione al debole, all’ultimo e allo straniero, al povero
e alla vedova, sarebbe solo l’espressione della forza dei più forti e delle classi di volta in volta dominanti.
A voler ben guardare, che cos’è la globalizzazione in atto se non lo spazio, “mentale”, dove ognuno si scopre straniero all’altro? È proprio la globalizzazione che ci costringe a rimettere in discussione questo paradigma del possesso, secondo il filosofo Galimberti. Un teologo come Carmine De Sante in un recente saggio sullo straniero dice chiaramente “la Bibbia è il grande codice che rende possibile pensare il rapporto tra gli umani al di là del
modello della conquista e del possesso”. Se la terra appartiene a Dio, l’uomo può pensarsi solo come “straniero e inquilino”, cioè come ospite nel duplice senso di ospitato e ospitante. Tutta una serie di dichiarazioni e prese di posizione mettono oggi in serie difficoltà l’accoglienza degli stranieri come dei cosiddetti barboni. Bisognerebbe
ricordarsi, che ciascuno di noi è un “mendicante” nei confronti di Dio, e, in un certo senso, nei confronti del nostro
prossimo. Non possiamo dimenticare la nostra precarietà.
Un qualsiasi evento drammatico, come un terremoto o altro cataclisma, può renderci, da un momento all’altro, bisognosi degli altri. Una precarietà che può essere superata solo con la solidarietà reciproca.
Lo straniero, nei nostri luoghi comuni del pensare, richiama sentimenti o di indifferenza, o di ostilità, in quanto
minaccia alla nostra sicurezza personale o di gruppo. Ma per il racconto biblico, lo straniero, con il suo carico di povertà
e di bisogni, è un chiaro appello che ci provoca alla responsabilità assoluta e indeclinabile della sua accettazione.
Ermanno Caccia
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